Roberto Bartolini21 Ottobre 20247min7380

Non c’è agricoltura rigenerativa se il mercato non paga

agricoltura rigenerativa

Produrre di più sull’ettaro coltivato, con un minore impatto sull’ambiente, è il mantra che da anni viene ci indicato come strada maestra per garantire un futuro alla nostra agricoltura. Tutti i big dell’agroalimentare mondiale hanno messo in campo almeno un progetto che riguarda l’agricoltura rigenerativa, il nuovo modello agronomico che introduce innovazioni meccaniche, genetiche e nelle pratiche di fertilizzazione e di difesa, per raggiungere l’obiettivo dell’intensificazione sostenibile.

I big dell’agroalimentare sono scesi in campo

Facciamo qualche esempio. Barilla, oltre alla ben nota “Carta del Mulino“, nel 2020 con il brand Wasa ha dato avvio al progetto di agricoltura rigenerativa per rendere la coltivazione della segale, il cereale più usato per la produzione degli iconici pani croccanti Wasa, ancora più sostenibile. Dal 2023 insieme a Davines Group, leader nella cosmetica professionale, Barilla sta sperimentando l’agricoltura rigenerativa sulla coltivazione in rotazione di frumento e cece, destinati a diventare cibo di prima qualità, e su essenze utilizzate nell’industria cosmetica quali la melissa, la calendula e la lavanda.

Unilever e Knorr hanno implementato 50 progetti di agricoltura rigenerativa che coinvolgeranno l’80% degli ingredienti chiave dei loro prodotti entro i prossimi quattro anni. In Italia “BuonCibo Knorr” è il progetto pilota di agricoltura rigenerativa del riso, che ha l’obiettivo di ridurre fino a un terzo le emissioni di gas serra e, al contempo, a migliorare la qualità dell’acqua e del suolo.

Nestlè sull’agricoltura rigenerativa ha lanciato oltre 300 progetti nel mondo, con un investimento nei prossimi cinque anni di 1,3 miliardi di euro. Il gruppo Mondelez, con i marchi Oro Saiwa e Milka, vuole produrre il 100% del grano italiano necessario alla produzione di biscotti in Europa, secondo i principi della “Carta Harmony”, diversificando la rotazione delle colture con i legumi per ottimizzare l’uso dei fertilizzanti e fornendo agli agricoltori un pacchetto di strumenti digitali per monitorare le pratiche agricole, l’impatto ambientale e migliorare l’efficienza della rendicontazione. Anche altri grandi marchi mondiali hanno messo in campo progetti sull’agricoltura rigenerativa, come Coca Cola, Cargill, Danone, Kellog’s, Mars, Pepsi, Walmart.

Cosa significa agricoltura rigenerativa

Applicare i principi dell’agricoltura rigenerativa si traduce per l’agricoltore in una rivoluzione prima culturale e poi agronomica, che comporta costi elevati e molto tempo da dedicare alla formazione. In pratica significa:

  1. Introdurre tecniche di minima lavorazione del suolo o non lavorazione.
  2. Controllare il compattamento del terreno e gestire adeguatamente i residui colturali.
  3. Seminare cover crops o colture intercalari tra le colture principali.
  4. Sostituire i concimi minerali con concimi organici.
  5. Ampliare la rotazione con colture più efficienti nell’uso delle risorse.
  6. Adottare nuovi sistemi irrigui avanzati per limitare l’uso dell’acqua.
  7. Applicare l’agricoltura di precisione e adottare le mappe di prescrizione per semina e concimazione a dosi variabili.

Incentivare l’industria con sgravi fiscali

Di fronte a questo elenco molto impegnativo, dobbiamo renderci conto che è inutile fare tanti bei discorsi sull’agricoltura rigenerativa, se poi gli agricoltori vengono lasciati soli nell’affrontare il nuovo corso e se le industrie di trasformazione non si mettono in testa che la sostenibilità dei prodotti agricoli va pagata con un giusto prezzo di mercato. Quindi cosa si dovrebbe fare?

Viviamo in un mercato globalizzato, quindi l’industria agroalimentare acquista le materie prime dove le conviene di più, rivolgendosi a chi offre merce al prezzo più basso. Basta vedere, per esempio, cosa sta accadendo in da mesi con il grano proveniente a milioni di tonnellate dalla Turchia. Ma allora, se davvero vogliamo valorizzare la nostra produzione agricola, deve entrare in campo lo Stato italiano, prendendosi l’onere di garantire, per esempio, sgravi fiscali alle industrie che si impegnano ad acquistare ogni anno materie prime italiane, ovviamente secondo precisi standard qualitativi, sulla base di contratti di coltivazione che fissino prezzi remunerativi rispetto ai costi di produzione.

Ma non finisce qui, perché lo Stato deve organizzare un’assistenza tecnica territoriale adeguata agli agricoltori per accompagnarli nel cambiamento, cioè verso l’adozione dell’agricoltura rigenerativa, per far sì che riescano a produrre in modo sostenibile (dal punto di vista ambientale e economico) ciò che l’acquirente richiede.

Il prezzo remunerativo innesca il cambiamento

Solo il mercato, cioè i prezzi remunerativi, può mettere in moto il cambiamento e innescare la voglia di innovare, di esplorare nuove strade e di intrattenere rapporti solidi e continuativi con chi acquista il raccolto. Non servono a nulla gli incentivi a fondo perduto, di fronte a un mercato sempre più in balìa di una volatilità incontrollabile. L’agricoltore ha bisogno di programmare investimenti e raccolti sulla base di certezze di mercato. Se non troviamo la strada per offrigliele, l’agricoltura rigenerativa rimarrà protagonista solo nei convegni e nelle tavole rotonde.

Roberto Bartolini

Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.


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